ST 31 - Società Italiana di Studi Araldici
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ST 31 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 31 – Anno XVIII – Settembre 2012 – Pubblicazione riservata ai soli Soci UNA LAPIDE BAROCCA NELLA CAPPELLA BIZANTINA La cappella Bonajuto, detta anche del Salvatorello, occupa un posto di rilievo negli itinerari turistico-archeologici di Catania, in quanto rientra tra le rarissime testimonianze locali di architettura bizantina. A croce greca, con cupola e tre absidi (trichora), si trova oggi all’interno del barocco palazzo Bonajuto, di cui costituisce le fondamenta, interrata com’è a quasi due metri di profondità. Siamo nel popolare e, al tempo stesso, aristocratico quartiere della Civita, il più antico della città etnea, a ridosso del porto, ove si susseguono i palazzi un tempo abitati dalla più illustre nobiltà: Biscari, S. Alfano, Calì, Serravalle, Cutelli, Platamone, Pedagaggi, Guttadauro (solo per citarne qualcuno) - lungo la via Vittorio Emanuele II, la stessa ove vissero e abitarono il lubrico poeta in vernacolo Domenico Tempio, il commediografo dialettale Nino Martoglio, d’irresistibile comicità, e tanti altri membri della vivace intellighenzia catanese. L’ingresso alla cappella è in una traversa, via Bonajuto. L’edificio appartiene dal secolo XV a questa antica famiglia, che, nel Cinquecento, vi costruì in adiacenza la propria domus palatiata, distrutta, assieme alla massima parte degli edifici cittadini, dalla catastrofe sismica del 1693. Alla ricostruzione, la cappella venne inglobata, come detto, nel nuovo palazzo. Nel Settecento – lo attesta il celebre Ignazio Paternò Castello1, principe di Biscari (la cui nonna paterna era Maria Bonajuto, moglie di Arcaloro Scammacca, barone della Bruca, personaggio fosco nel mito popolare) – il tempio, conservando la sua funzione di culto, venne adibito dai Bonajuto a sepolcro gentilizio. Restaurato negli anni ’30 dello scorso secolo dal grande archeologo Paolo Orsi, una felice iniziativa di questi ultimi anni, curata dagli attuali Bonajuto, gli ha dato nuovo smalto, trasformandolo in luogo d’incontri culturali e di spettacolo. Ai competenti di storia dell’arte alto-medievale l’esame analitico del monumento. Noi ci limiteremo a considerare un reperto, di ben più modeste dimensioni e importanza, contenuto in essa e murato presso l’ingresso. Si tratta di una lapide marmorea alta circa m.1,90 e larga m. 1, unica testimonianza, oggi2, dell’essere stata la cappella un sepolcreto. Eccellente la fattura e numerosi gli interrogativi suscitati. Nelle immagini seguenti vediamo la lastra al centro, affiancata dai particolari: la parte superiore, dedicata all’araldica, e quella inferiore, contenente l’epigrafe. I due scudi accollati sono di foggia a cartoccio ‘allungato’, timbrati entrambi da corone patriziali (simili, ma non identiche), che accostano un elmo in maestà, e sono accompagnati, inferiormente, da un trofeo di armi bianche e da fuoco (scudi, spade, faretra con frecce, granata, mortaio, tamburo e tre palle di cannone). Lo scudo di sinistra mostra un Troncato: nel 1°, di …, a tre cipressi di …, nodriti sulla partizione, quello mediano addestrato da un leone rivolto di …, rampante contro il tronco; nel 2°, di …, a quattro pali di…, colla banda di …, attraversante sul tutto. Dato che è ben nota l’arma Bonajuto (D’oro, a tre cipressi di verde, nodriti su un ristretto di terreno dello stesso, il cipresso mediano sinistrato da un leone al naturale, rampante contro il tronco) e non meno quella presente nel 2° punto del troncato, che è Paternò (D’oro, a quattro pali di rosso, colla banda d’azzurro attraver-sante sul tutto), siamo di fronte a una arma di alleanza alquanto singolare, giacché lo scudo, a rigore, dovrebbe essere ‘partito’ e non certo ‘troncato’. C’è anche il particolare del leone ‘rivolto’, ma esso non ha rilievo, visto che i Bonajuto, a quanto pare, usavano indifferentemente l’animale in entrambe le posizioni; altrettanto vale per la presenza, o meno, della campagna e la eventuale rappresentazione del cipresso mediano con un’altezza maggiore degli altri due. Deve ancora dirsi che il Mugnos3, nel suo diffuso discorso sui Bonaiuto, attribuisce loro l’arma: D’azzurro, a tre cipressi d’oro, il cipresso mediano sinistrato da un leone dello stesso, rampante contro il tronco. Quel ch’è più che strano è che l’altro scudo, quello alla sua sinistra, teoricamente destinato a contenere l’arma della consorte del Bonajuto, appaia invece vuoto. All’altezza del suo capo, invero, sono visibili due tracce, come di scalpellatura di due piccole figure, poste sulla medesima direttrice, ma potrebbe trattarsi di abrasioni involontarie. La targa ospitante l’epigrafe appare vivamente provata dal calpestio, subito almeno per un paio di secoli (la cappella rimase aperta al culto sino al 1920 circa), quando era collocata sul pavimento della cripta, e da una frattura profonda, ricomposta, ma che – assieme ad abbreviature non codificate – rendono critica la lettura del conciso testo, che si sustanzia in un semplice dato: Vincenzo BONAJUTO e LANDOLINA, mancato il 3 novembre 1708. Allo stato, dato che queste note poggiano in via pressoché esclusiva su fonti a stampa, non è stato identificato con certezza il personaggio, anche se è plausibile che si sia trattato “del nobile letterato Vincenzo Bonaiuto”4, ricordato per avere 2 effettuato una serie di rilievi scientifici nelle vicinanze di Catania dopo il sisma del 1693. Potrebbe ben trattarsi del Vincenzo Bonajuto, che, assieme a Lucio Bonanno, duca di Floridia (peraltro suo congiunto), “professavano eglino un vivo amore allo studio delle belle lettere ed alle matematiche, ed erano diretti dal celebre e nobile antiquario D. Francesco Mirabelli…”, in stretta corrispondenza “ …con altri eruditissimi cavalieri messinesi…”, tra i quali emergeva Giovanni Ventimiglia5. Nel gruppo dei “…doviziosi signori … intenti al pubblico bene...”, fattisi protettori dell’agricoltura isolana mediante la realizzazione di stabilimenti e l’adozione di attrezzi idonei, quali il principe di Castelnuovo, il barone Friddani, il principe di Manganelli e il principe di Granatelli, primeggiava su tutti il cavaliere Vincenzo Bonajuto6. Si tratta, probabilmente, dello stesso Vincenzo Bonajuto, figlio del fu dottor Francesco, entrambi regi cavalieri, come tali registrati nella Mastra Nobile di Catania del 16 gennaio 1696. Il padre era Capitano di Giustizia per il triennio 1696-987. Un altro Vincenzo, figlio di Silvio, entrato in lite possessoria con il convento di S. Francesco per il feudo di Vaccarizzo, era morto già nel 1693, per cui è da considerarsi fuori gioco. Purtroppo, a oggi, null’altro m’è noto del Vincenzo uomo di cultura, per cui ignoro se fosse figlio di una Landolina e a quale titolo portasse nel 2° del troncato l’arma Paternò, né riesco a concepire la presenza dei trofei bellici quali ornamenti esterni di uno stemma di un intellettuale e non di un militare. Aggiungo che, mentre l’interno dello scudo Bonajuto-Paternò appare scolpito a bassorilievo, l’altro, rimasto apparentemente vuoto, è notevolmente convesso. Ancora, la targa epigrafica appare anch’essa ‘piallata’, mentre l’estetica barocca avrebbe preteso una spiccata bombatura. Tutto ciò m’induce a ritenere non peregrina la idea che la lapide sia stata oggetto di un ‘riutilizzo’, operazione tutt’altro che rara per le lastre marmoree. Una tradizione familiare vuole che nel Trecento tre fratelli Bonajuto siano emigrati dalla Spagna, per passare il primo a Catania, il secondo a Siracusa e il terzo in Toscana. Di questi ultimi faremo cenno più avanti, ma, per quanto riguarda i Bonajuto isolani, le fonti appaiono discordi. La maggioranza degli autori8 concorda sull’origine spagnola, indicando nello specifico Valencia come città d’ origine, mentre il solo Galluppi9 si distacca, propendendo per Firenze. Il secolo del loro passaggio è sempre il XIV, nei suoi primissimi anni (se non il finire del XIII), dato che il capostipite, Raimondo de’ Bonaiuto o Beneyto, miles valenzano, sarebbe venuto in Sicilia in qualità di Balio (nella specie, delegato alla gestione del patrimonio) della Infanta Violante, figlia di re Pietro d’Aragona e della regina Costanza di Svevia, che aveva sposato a Roma nel 1297 Roberto d’Angiò, duca di Calabria e l’aveva seguito in Sicilia, prendendo dimora in Catania. Si spense poco dopo, appena nel 1302, a Termini Imerese. Due glosse s’impongono. La prima è rappresentata da una pergamena del luglio 1283, nella quale Fra Nicolò Tuynto, maestro della casa dei Teutonici, concede un edificio di abitazione a tale Pasino di Bonajuto10. La seconda, da quanto si legge nel noto manoscritto Vindiciae Siculae nobilitatis11 di Mario Cutelli, il grande giurista catanese del Sei- cento, del quale, peraltro, la figlia Emilia era andata sposa a un Bonajuto. Dopo avere premesso che la famiglia è tra le principali di Siracusa e di Catania e che un Giuseppe aveva dato luogo al ramo dimorante in Palermo, Cutelli afferma categoricamente “…certum est patritiam esse, ac Siracusis provenire, unde gentis illi priora, ac notiora initia, inde Catanam & Panormum magno ubique nomine transgressam…”. Tralascia, dunque, l’origine prima, limitandosi a dichiarare che i Bonajuto di Catania derivano da quelli di Siracusa, al pari del ramo palermitano, e che la loro appartenenza alla più antica nobiltà primaria è fuori discussione. A modesto favore della tesi iberica deve dirsi che un non ignoto genealogista12, a proposito della famiglia Beneito, scrive che un Raimondo (Ramundo), proveniente dalla Francia, fu governatore (alcalde) del castello di Alloy e signore di Mirambell, per grazia di re Giacomo il Conquistatore. Aveva ad arma: Di rosso, all’agnello pasquale d’argento, tenente una bandiera della stesso, carica di una croce di rosso, accompagnato nel capo da un giglio d’oro. Altro più recente scrittore13 conferma l’origine francese dei Beneyto o Beneito e il loro stabilirsi in Aragona e a Valencia, con successivo passaggio di un ramo in Estremadura, ma – come il precedente – non fa cenno a diramazioni siciliane. Anche in questo caso, le due armi alternativamente in uso sono del tutto diverse da quelle alzate dai Bonajuto di Sicilia: D’azzurro, al ferro di cavallo d’argento; alias: Di rosso, al giglio d’oro. investiti di Cavalera. Ad Antonio successe il figlio Artale, che, avendo sposato la baronessa di Palazzolo, assunse il cognome Alagona, abbandonando per sempre quello di Bonajuto. Il secondogenito di Bartolomeo, ancora un Michele, generò Guglielmo e Raimondo, investiti alla morte del padre, avvenuta nel 1527, il primo del feudo del Miliato e l’altro di quello di Carracino, nel 1535. Ferdinando, nel 1703, fu investito della baronia della SS. Annunziata. A Mastra nobile di Catania, a partire dal 1437, dettero un Giurato nobile, due Senatori, tre Patrizi, tre Capitani di Giustizia, un notaio e tre Regi Cavalieri. Si allearono a tutte – si può dire – le grandi famiglie etnee e con frequenza notevole a quella, particolarmente numerosa dei Paternò, nelle sue diverse ramificazioni. Nel 1571, Raimondo Bonajuto, designato Capitano di Giustizia dal viceré Pignatelli, si seppe destreggiare egregiamente in una situazione particolarmente difficile, in quanto l’avversione del popolo catanese lo aveva costretto in un primo momento ad abbandonare la città. Riuscì a rientrarvi, grazie all’appoggio prestatogli da Cesare Gioeni, valente uomo d’armi fresco reduce dalle Fiandre, e da molti esponenti dell’aristocrazia, quali Giovanni Ramondetto, Tommaso Guerrero, Stefano Gaetani e altri. Munì di buone artiglierie le porte di Catania, preoccupato dei successi palermitani dello Squarcialupo, che aveva in città seguaci, capitanati dal conte di Adernò e dal barone di Raddusa, attestati a Lentini. La festa di S. Agata del 17 agosto fu celebrata con la consueta solennità, ma in armi. Quattro giorni più tardi giunsero nella rada due bastimenti, carichi di munizioni e armi, acquistate a Messina dal conte di Adernò, che sferrò contemporaneamente l’attacco, sperando di riuscire ad armare la popolazione. Ma Bonajuto, vigile, scatenò un fuoco micidiale e Adernò rimase ferito, mentre Raddusa, che era riuscito penetrare nella città dalla Porta Reale, resosi conto del fallimento, si arrese14. Secondo diversi autori, già citati (tra i quali anche Mugnos, che non sempre si rivela bugiardo), Raimondo avrebbe sposato una donna della più alta aristocrazia dell’isola, una de Mohac. Dal figlio Luigi, che aveva tolta in moglie una ricca gentildonna di Lentini, Alda di Milocca, nacquero tre figli: Cesare, Capitano di Giustizia di Catania nel 1437, stabilitosi poi a Siracusa, dove acquistò dai Moncada la terra di Melilli; Antonio, rimasto a Lentini e marito della figlia di Guidone Gaetani, signore di Sortino, comprò il castello e il feudo di Oxino dai Branciforte, conti del Mazzarino (l’avevano a loro volta acquistato dagli Alagona) e ne fu investito nel 1498, Probabilmente si tratta di quell’Antonio Bonajuto, creato Regio Cavaliere nel 1521; Bernardo, anche lui residente a Lentini e padre di ben quattordici figli. Francesco, primogenito di Cesare, prese stabile dimora a Catania e fu padre di Bartolomeo, notaio, che comprò da Luca Pollasta quattro parti del feudo della Cavalera in territorio di Centuripe, già appartenuto a Matteo Sclafani, ottenendone conferma nel 1420. Il figlio primogenito Giovanni fu Maestro Razionale del Regno nel 1494 e padre di Michele, genitore di Giovanni e di Antonio, entrambi Tra i repressori dei moti catanesi del 1848 si distinse il cavalier Vincenzo Bonajuto Cantarella, magistrato, definito da un liberale, assieme ad altri esponenti dell’alta nobiltà locale, uno dei “… più feroci reazionari…”15. Sullo scorcio del secolo XIX due furono i deputati al Parlamento nazionale di casa Bonajuto: Bonajuto Bonajuto e Giuseppe Bonajuto Paternò Castello. Quest’ultimo fu personaggio considerevole, a capo della corrente ‘democratica-antitrasformista’ e assai vicino di Francesco Crispi. La sua persona non fu priva di ombre, tra le quali quella di un comportamento scorretto nel corso di un duello con un avversario politico, nel 1889. Pure, Catania gli deve l’ampliamento e il trasferimento della massima istituzione ospedaliera cittadina, l’ospedale di S. Marco, che prese allora il nome del sovrano Vittorio Emanuele II. Il fondo archivistico Bonajuto, conservato presso la Biblioteca Civica e A. Ursino Recupero, è esclusivamente costituito dai documenti del suo archivio privato. Passando adesso ai Bonajuto siciliani degli altri rami, è giusto iniziare da quello di Siracusa, probabile culla della famiglia 3 nell’isola. Si affermarono ben presto nell’ambito ruolo di alti funzionari della Camera Reginale, a partire dal 1476, esprimendo ben tre Protonotari16. Dettero alla città due Governatori nel periodo 1499-150617. Giuseppe e Filippo furono Giurati nobili, rispettivamente nel 1629 e nel 170318 e Girolamo, barone di Cavalera, Senatore, negli anni 1603-0419. Uno dei loro palazzi sorgeva presso la Porta Aretusa, scomparsa in antico20. Altro, di fronte ai grandi acquedotti, ricoperti nel 180921. Naturalmente, si allearono alle migliori case della vecchia aristocrazia siracusana e, a seguito di matrimoni, ottennero le baronie di Floridia e di Palazzolo. La prima, rimasta unica erede del ramo Flavia Bonajuto, fu da questa portata in dote a Lucio Bonanno, che riuscì a ottenerne l’elevazione a ducea22. Sempre in via femminile, passò quindi ai Grifeo. La seconda, “…casa Bonajuto hebbe per matrimonio di casa Alagona…”23 e passò ben presto ai Ruffo. Apparteneva al ramo di Siracusa il primo cavaliere gerosolimitano della famiglia, Francesco, passato per giustizia nel 1550. Partecipò alla difesa di Malta durante il Grande Assedio del 156524. Fu Balì di S. Stefano, Ammiraglio della Religione e proprietario di una galera, la Vittoria, che riuscì a sfuggire ai barbareschi nello scontro avvenuto nelle acque di Licata nel 160625. Il ramo siracusano passò come quarto in numerosi processi, come quelli Abela, Gravina, Giurato, Laguna, Pericontati e Sciortino, mentre quello catanese dette un cavaliere di giustizia con Giovan Battista Bonajuto, ricevuto il 2 maggio 173526. Il matrimonio del 1573 della nobile maltese Angelica Gulfi con Scipione Bonajuto27 apre la porta a diverse ipotesi, tra cui quella che Scipione fosse in quell’isola per pronunciare i voti. Vincenzo Bonajuto fu “…tra gli eruditi cavalieri siracusani…””, che simpatizzavano per il duca di Guisa nel 1647-4828. Dello stabilirsi di una diramazione a Palermo, sappiamo soltanto dal Cutelli29 che a trasferirvisi fu un Giuseppe. Dal Mugnos30, integrato col Mango31, apprendiamo che a questo ramo appartennero Silvestro, investito della baronia di Ficilino nel 1540, Gaspare, barone della Motta32 e Senatore di Palermo nel 1589-90, Giuseppe, Senatore di Palermo nel 1626, 1627 e 1629 e un Vincenzo”…di rare qualità…”. Bernardo era nel 1789 segretario dell’Accademia del Buongusto di Palermo. Minime le notizie sui Bonajuto di Messina. Galluppi33 li dà estinti nel secolo XVII, ma Filippo Bonajuto, giudice straticoziale (carica nobile) nel 1738, venne esonerato, perché dichiarato esoso, nel 174034. E allora? Spigolando sulle pagine di vecchi libri, si incontra un gran numero di altri Bonajuto siciliani, dei quali, talora, si dispone, addirittura, solo del nome. S’impone, dunque, attenzione, in quanto di Bonajuto nell’isola ci sono stati e ci sono molti ceppi, certamente non riconducibili alla famiglia trattata, almeno sino a prova contraria. Tanti i nomi e, di regola, gli appellativi si rivelano fondamentali per un inquadramento di massa. Facciamo seguire tre esempi, all’insegna del “chi era costui?” di manzoniana me4 moria, ritenendo in due casi certa la nobiltà e l’appartenenza al vecchio ceppo dei Bonajuto e nel terzo non improbabile: - Juan Bonajuto pubblica nel 1614, in spagnolo, una proposta innovativa al re di Spagna sul modo di organizzare le truppe a piedi e a cavallo del regno di Sicilia, con l’allettante chiosa “…sin detrimento del patrimonio real…”; - Artale Bonajuto era Capitano di Giustizia della Fulgentissima città di Naro nel 1643-44; - Bernardo Bonajuto, da Trapani (1714-1784), fu celebre letterato, autore di panegirici di viceré, di non spregevoli versi di devozione e, alle volte, di rime pesantemente bernesche, socio di infinite accademie arcadiche. Da giovane si era trasferito a Palermo, come segretario di personaggi dell’aristocrazia. Al di là del Don, sempre premesso al nome (ma che non si negava ad alcun civile), la sua intimità con molti personaggi del gran mondo della capitale siciliana e il suo stesso nome proprio, Bernardo, fanno pensare a un membro di un ramo decaduto della grande, per nome e censo, famiglia Bonajuto. In chiusura, un cenno ai nobili Bonajuti di Toscana di Firenze, a stragrande maggioranza), di cui è larga memoria in monumenti e autori. Questi ultimi tacciono, però, di loro emigrazioni con la Sicilia35. Ci limiteremo alle famiglie principali, dandone blasonature e raffigurazioni delle armi gentilizie, ove note: MARTINI, detti anche di CINO, di AGOSTINO BONAJUTI, dettero dal 1313 a Firenze nove Priori ed un Gonfaloniere di Giustizia Si estinsero nel 1752. arma: Di rosso, alla fascia d’oro, carica di tre crocette d’azzurro; alias: D’argento, a tre martelli di nero, posti in fascia e ordinati in palo. BONAJUTI di Firenze, presenti con più Priori dal 1311. arma: Troncato d’azzurro e d’oro, al liocorno dall’uno all’altro, attraversante sulla partizione; alias: D’azzurro, al liocorno inalberato, d’oro; alias: Trinciato di … e di …, al liocorno dall’uno all’altro, attraversante sulla partizione. BONAJUTI o BUONAIUTI di Firenze, originari di Mugello, espressero otto Priori, a partire dal 1291. Si suddivisero in più rami e, mentre uno di essi conservò il cognome Bonajuti, le altre diramazioni assunsero quelle di LORINI, STEFANI, ABBATTINEMICI, RAU. La branca BONAJUTI aveva ad arma: Grembiato d’argento e d’azzurro, di sei pezzi; alias: Grembiato d’argento e di nero, di sei pezzi. I LORINI, arma: D’azzurro, al monte di sei cime all’italiana d’oro, movente dalla punta, sostenenti negli interstizi quattro rami d’alloro di verde, due in banda e due in sbarra; alias: come sopra, ma con il capo d’Angiò. Gli STEFANI, arma: Di rosso, al massacro di cervo, d’argento; col capo d’azzurro, carico della stella di otto punte, d’oro. Non è nota l’arma dei Rau fiorentini, ma fiorisce in Sicilia l’antica famiglia RAO o RAU, marchesi della Ferla, che Mugnos vuole originari di Pisa, ghibellini e passati nell’isola al tempo dei Martini, re di Trinacria. Usano: D’azzurro, alla fenice sorante d’argento, sopra la sua immortalità di rosso, fissante il sole d’oro, nascente dal cantone destro del capo. Una famiglia BONAJUTI di Firenze alzava l’arma: Di rosso, alla testa umana di carnagione, crinita d’oro. Altri BONAJUTI, sempre fiorentini: D’oro, al cervo saliente al naturale, sostenuto dalla campagna di verde, accompagnato da tre rami di rosaio al naturale, nodriti sulla campagna, due a destra, in palo, e uno a sinistra, in banda. Presenta affinità con quella dei BONAJUTI di Pistoia: D’azzurro, al cervo saliente d’oro, accostato da tre rose dello stesso, due a destra, una sull’altra, e l’altra a sinistra. Altri BONAJUTI della città del Fiore usarono: D’oro, al palo d’argento, bordato di nero. Conclude degnamente la rassegna un personaggio d’altissimo livello, Galileo GALILEI. La sua famiglia si chiamava originariamente BONAIUTI, che abbandonò per GALILEI alla fine del Trecento, cognomizzando il nome proprio di un celebre medico e docente universitario, sepolto, come il grande astronomo da lui disceso, in Santa Croce. arma: D’oro, alla scala di tre piuoli, di rosso. note 1 I. PATERNO’, principe di Biscari, Viaggio per tutte le antichità della Sicilia, Napoli, 1781, p. 35: “… anni sono nel volere i prefati di Bonajuto formare la propria sepoltura …”. 2 Antonio Bonajuto, attuale capo della famiglia, riferisce che, poco prima della guerra, esisteva nella cripta un monumento funebre, sempre settecentesco, sormontato da un busto del defunto, ma venne successivamente trafugato dai soliti ignoti. Colgo l’occasione per rinnovare i miei ringraziamenti per le tante notizie, telefonicamente fornitemi, a questo affabile, colto e simpatico gentiluomo, pieno d’interessi e ancora assai attivo, decisamente giovane per temperamento e tratto, malgrado l’appartenenza alla ‘classe 1916’. 3 F. MUGNOS, Teatro genologico delle famiglie nobili … del Regno di Sicilia, I, Palermo, 1647, pp. 150-152. 4 S. RUSSO FERRUGGIA, Storia della città di Noto, Noto, 1838, p. 61.Nel Giornale dei Letterati, vol. 50, Pisa, 1783, p. 194, si legge che un Bonajuto scrisse del terremoto del 1693. 5 P: LANZA, principe di Scordia, Storia di Sicilia dal 1532 al 1789, Palermo, 1836, p. 102. 6 F. TORNABENE, Quadro storico della botanica in Sicilia, che servì di prolusione all’anno scolastico 1846 e 1847 nella Regia Università degli Studi in Catania, in P. GIUNTINI, Descrizione di Catania e delle cose notevoli ne’ dintorni di essa, p. 85. 7 G. MANGO di CASALGERARDO, Nobiliario di Sicilia, I, Palermo, 1912, p. 133. 8 MANGO, v. nota 6; MUGNOS, v. nota 3; A. MINUTOLO, Storia del Gran Priorato di Messina, Messina, 1699, p. 228. 9 P. GALLUPPI, Nobiliario di Messina, Napoli, 1877, pp. 202-203; V. SPRETI, nella sua Enciclopedia storico-nobiliare Italiana (vol. 2, Milano, 1929, pp. 112-113), se la cava attribuendo ai Bonajuto origine alternativamente fiorentina o valenzana e riporta una serie di dati, presi dagli autori precitati, senza darsi cura, more solito, di citarli. 10 V. MORTILLARO, marchese di Villarena, Opere, vol. VII, Palermo, 1858, p. 73. 11 M. CUTELLI, Vindiciae Siculae nobilitatis - Opusculum hoc gravi studio Marii Cutelli jurisperitis elaboratum latet; nam veritas odium parit, Ms III C 7.21, f. 25, Biblioteca Zelantea di Acireale.. 12 F. PIFFERER, Nobiliaria de los Reinos y Señores de España, t. I, Madrid, 1857, p. 97. 13 J. de ATIENZA, Diccionario Nobiliario – Nobiliario Español, Madrid, 1959. 14 I. LA LUMIA, La Sicilia sotto Carlo V imperatore, Palermo, 1852, pp. 137-141. 15 s.a., Memorie storiche e critiche della Rivoluzione Siciliana del 1848, Londra, 1851, p. 34. 16 V. CASTELLI, marchese di Torremuzza, Fasti di Sicilia, vol. II, Messina, 1820, p. 560. 5 17 T. GARGALLO, Per lo ristori di Siracusa, vol. II, Napoli, 1791, p. 427. 18 F. M. EMANUELE e GAETANI, Della Sicilia nobile, t. III, Palermo, 1779, p. 372. 19 SPRETI, op. e pp. citate. 20 V. MIRABELLA e ALAGONA, Delle antiche Siracuse, vol. II, Palermo, 1718, p. 15. 21 G. M, CAPODIECI, Antichi monumenti di Siracusa, t. I, Siracusa, 1816, p. 137. A p. 138 tratta del precedente palazzo. 22 EMANUELE e GAETANI, op.cit. p. 366, nota 22. 23 BUONFIGLIO e COSTANZO, Messina, città nobilissima, Venezia MDCVI e Messina MDCCXXXVIII, pp. 148-149. 24 B. del POZZO, Ruolo Generale dei Cavalieri Gerosolimitani ricevuti nella Veneranda Lingua d’Italia, Torino, 1713, pp. 106107; MINUTOLO, op. cit., p. 36; F. BONAZZI di SANNICANDRO, Elenco dei Cavalieri del S. M. Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme ricevuti nella Veneranda Lingua d'Italia dalla fondazione dell'Ordine ai nostri giorni, Parte Prima, Napoli, 1897, p. 45 e nota3. 25 MINUTOLO, v. sopra; V. PALIZZOLO GRAVINA, Il blasone in Sicilia, Palermo, 1871-1875, p. 102. Il secondo autore, emulo ottocentesco del Mugnos, attribuisce alla galera la vittoria, omen nomen. 26 BONAZZI di SANNICANDRO, op. cit., Parte Seconda, Napoli, 1907, p. 21. quartier generale dell’austriaco generale Bubna con il quale partecipò alle campagne in Svizzera ed in Savoia sino al marzo del 1814. Ricostituitosi l’esercito del Regno di Sardegna e con esso le particolari unità della Casa Reale, nel maggio del 1814 venne nominato maresciallo d’alloggio della 1^ compagnia delle Guardie del Corpo, quella tradizionalmente formata con elementi della Savoia e decorato del grado di capitano di cavalleria. Nel gennaio del 1817. sia pure decorato del grado di maggiore, passò come capitano nel reggimento dei cavalleggeri del Re, nei moti del 1821 contro la posizione assunta da diversi ufficiali del reggimento, ma fedele al giuramento non aderì alla rivolta e col suo squadrone raggiunse a Novara, secondo gli ordini di re Carlo Felice, Vittorio Sallier de la Tour. L’anno successivo venne promosso maggiore nel costituendo reggimento dei Dragoni del Genevese. La sua carriera scorse poi, secondo la velocità dei tempi, ma senza alcun intoppo per la sua evidente capacità nel comando, tenente colonnello nel 1826 il 6 luglio del 1831 assumeva il comando di Savoia cavalleria e tre anni dopo promosso maggior generale era nominato comandante della Brigata Casale. Giusto premio per un ufficiale savoiardo, il 2 gennaio 1841 diveniva comandante della Brigata di Savoia, che assieme al reggimento delle Guardie, era una delle unità di punta dell’esercito di Sardegna. Particolarmente stimato da Carlo Alberto l’8 aprile del 1843 veniva promosso luogotenente generale e nominato Viceré di Sardegna . 27 Frà G. F. ABELA, Malta illustrata, accresciuta dal conte G. A. CIANTAR, Malta, MDCCLXXX, p. 499. 28 LANZA, op. cit., p. 102. 29 v. nota 30 v. nota 3. 31 v. nota 7. 11 . 32 Motta d’Affermo, posseduta sin dal 1557 da Vincenzo Bonajuto e da Gaspare trasferita, per ragioni di matrimonio, a Blasco Isfar e Coriglies nel 1580 (EMANUELE e GAETANI, op. cit., Parte Seconda, Palermo, 1757, p. 366). Aveva forse ceduto il feudo, conservando il diritto a fregiarsi del titolo, a meno che non continuasse semplicemene a farne uso.. 33 v. nota 9. 34 S. DI BELLA, Caino Barocco – Messina e la Spagna 1672-1678, Cosenza, 2005, p. 126. Angelo Scordo Claudio Gabriele de Launay – l’Ultimo Viceré di Sardegna Claude Gabriel de Launay nacque a Duingt, piccolo comune del Genevese, il 6 ottobre 1786, aveva quindi sei anni quando la Francia rivoluzionaria conquistò la Savoia, troppo giovane quindi per essere arruolato nell’esercito napoleonico, cui peraltro per tradizioni familiari ed attaccamento al’antica casa regnante nutriva una profonda avversione. Così quando nel 1813, proprio quando aveva raggiunto l’età per la quale avrebbe potuto essere inviato a morire per l’Imperatore in Spagna o Germania, rispose invece con entusiasmo all’invito del generale de Sonnaz per entrare a far parte delle unità savoiarde che si stavano costituendo per rivoltarsi contro la Francia. Nel dicembre del 1813 venne quindi aggregato al 6 Claudio Gabriele de Launay Cavaliere di Gran Croce decorato del gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro Ricoprì tale incarico nel delicato periodo dell’estensione in Sardegna della legislazione piemontese di terraferma, dopo che nell’isola si era cominciata a farsi strada l’esigenza di abbandonare l’antica costituzione del regno e di ottenere l’equiparazione agli stati di terraferma; per il suo carattere autoritario, il suo ossequio alla gerarchia non riuscì sempre a mediare i conflitti fra funzionari e i più eminenti personaggi del regno anche per le indecisioni del sovrano ed il suo altalenante comportamento. L’introduzione della nuova legislazione, che si voleva inizialmente in tempi ragionevolmente brevi, fu invece assai rallentato così da provocare incertezze e confusioni che finirono per ricadere sul Viceré. Carlo Alberto riteneva infatti che il ritardo socio economico in cui si trovava la Sardegna escludesse la possibilità di introdurvi tutte le riforme e cosi fu solo il 30 ottobre del 1847, dopo una serie di dimostrazioni di piazza che il sovrano estese all’isola alcune delle riforme da tempo in atto in terraferma, fra queste vi fu anche l’abolizione della Segreteria di Stato per gli affari della Sardegna e della Reale Udienza, sostituita quest’ultima con il Senato di Cagliari. La Reale Udienza era peraltro un antichissima istituzione della giustizia dell’isola che poteva assumere peraltro in assenza del Viceré funzioni di governo, mentre il Senato era istituzione esclusivamente giuridica. Quello per cui i liberali sardi spingevano era l’unione o meglio la fusione dell’isola col resto del regno. Il de Launay si trovo stretto fra il suo dovere, profondamente sentito, di obbedienza al re e alla sua politica, che non tendeva a dare una svolta così immediata alla situazione costituzionale della Sardegna, e la situazione isolana, nella quale vedeva sempre più crescere la spinta dei Sardi all’unione, eutanasia di un regno è stata chiamata da uno storico contemporaneo questa spinta di cui gli isolani, in realtà ma non si può dire troppo forte, si pentirono non molto dopo. Il Viceré si trovò quindi in grande difficoltà quando si rese conto di non essere in grado di impedire che sia gli Stamenti, sia il Consiglio civico di Cagliari redigessero documenti nei quali chiedevano la fusione che vennero presentati al sovrano il 29 novembre del 1847. Nel corso dell’udienza Carlo Alberto promise la fusione, le facilitazioni doganali ai prodotti sardi e il 3 dicembre il de Launay, fedele alle direttive del sovrano il 3 dicembre successivo pubblicò un proclama col quale annunciava l’avvenuta fusione. Dopo di che lavorò con sagacia perché il processo di fusione procedesse, con un iter non sempre facile tenuto conto della specificità della legislazione che sino ad allora aveva regolato la vita nell’isola. Problema che divenne di proporzioni ancora maggiori quando proclamato lo Statuto, dopo un momento di incertezza, esso fu esteso anche all’isola per il numero delle leggi di cui comportava la rimozione, alcune di origine feudale, e per il complesso delle nuove di cui prevedeva l’introduzione. Problema complicato anche dal fatto che passata l’ubriacatura liberal-quarantottesca nella popolazione cominciava a nascere la preoccupazione per le conseguenze economiche che la fusione provocava, vero che erano aboliti i dazi per la vendita dei prodotti sardi ma non vi erano però neanche quelli che in qualche modo proteggevano la produzione di beni che ora giungevano di migliore qualità ed a prezzi più convenienti dal continente, con riflessi negativi sull’occupazione. l’isola, fu l’ultimo Viceré di Sardegna, carica istituita dagli Spagnoli nel 1418, che vedeva nel viceré l’alter ego del monarca che occupava il regno in sua assenza, assumendo la pienezza della potestà regia e la facoltà di convocare e presiedere i Parlamenti. Tornato sul continente venne nominato comandante generale della Divisione di Genova e nel 1849 lasciato l’incarico per un breve periodo, dopo la sconfitta di Novara venne nominato per un breve periodo, dal 27 marzo al 7 maggio del 1849, Presidente del Consiglio dei Ministri, lasciò certo con piacere l’incarico a Massimo d’Azeglio. Morì a Torino l’anno dopo. Si richiama qui la sua figura, a ricordo dei Savoiardi e Nizzardi che a riconoscenza dell’impegno speso a vantaggio della loro patria vennero ceduti senza neppure un grazie e si fece scendere su di essi il pesante velo dell’oblio, per celare almeno in quelli che non avevano troppo pelo sullo stomaco, un senso di imbarazzo. P.G. Lo stemma di SAR la Duchessa di Cambridge e alcuni cenni genealogici È passato ormai più di anno dalle nozze tra il secondo in linea del Trono britannico e la signorina Catherine Elizabeth Middleton (laureata in storia all’Università di St. Andrew’s in Scozia), non abbiamo voluto accodarci al codazzo mediatico che ha accompagnato l’evento e quindi non abbiamo subito riportato notizie araldiche sull’arma gentilizia ereditaria dell’ultima persona a entrare nella Famiglia Reale d’oltremanica, ora che l’ondata è passata ci si accinge a fornire quei dati che dal punto di vista araldico hanno la loro importanza.. Arma de Launay: Inquartato, d'argento, allo scaglione spinato, di nero, e d'argento, a tre moscature di ermellino, 2, 1, 2 Il 12 agosto 1848 in virtù delle nuove norme costituzionali il De Launay cessò dall’incarico di Viceré ed il 1 ottobre lasciò S.A.R. Catherine Elizabeth duchessa di Cambridge 7 L’arma Middleton fu concessa al padre della allora futura duchessa, il signor Michael Middleton, una settimana prima delle nozze con SAR il principe Guglielmo di Galles nel mese d’aprile del 2011. Arma personale di S.A.R. la duchessa di Cambridge: Partito nel primo inquartato, nel primo e quarto di rosso a tre leoni d’oro posti in palo (per l’Inghilterra), nel secondo d’oro al leone rampante con doppia orlatura fiorita e contro fiorita di gigli, il tutto di rosso (per la Scozia), nel terzo d’azzurro all’arpa d’oro all’arpa d’oro cordata d’argento (per l’Irlanda), nel secondo arma di Middleton. Otre questi esiste anche lo stemma combinato relativo ai duchi di Cambridge Arma Middleton: Partito cucito d’azzurro e di rosso, allo scaglioned’oro, accostato da due scaglio netti d’argento, attraversante sul tutto ed accompagnato da tre ghiande gambute e fogliate di due pezzi d’oro, le prime due nel capo in ciascuno dei punti, e la terza in punta attraversante sulla partizione. La stampa mondiale ha fatto molti riferimenti alle origini di S.A.R. la principessa Catherine, duchessa di Cambridge, Contessa di Strathearn e baronessa di Carrickfergus: cioè le sue origini plebee o di "commoner" ecc... ma se si esamina più attentamente la sua genealogia troviamo che tali osservazioni non sono del tutto corrette ma dettate dalla demagogia imperante. Ecco brevemente la linea genealogica maschile dei Middleton per gli ultimi 200 anni: il quarto avo fu William Middleton (1807-1884), un avvocato, quindi già con uno status di gentleman, cioè il primo rango della piccola nobiltà; il trisavolo fu John William Middleton (1839-1887) anch’egli un avvocato; il bisavolo fu Richard Noel Middleton (1878-1951), un altro avvocato (solicitor). Il nonno della duchessa di Cambridge, Peter Francis Middleton (1920-2010) invece fu un pilota della RAF e poi un’istruttore di volo. Il padre, Michael Francis Middleton (nato nel 1949), già pilota civile è ora un uomo d’affari miliardario. Quindi, anche se la concessione di uno stemma al Signor Michael Francis Middleton è avvenuta soltanto poco tempo prima dell’unione di sua figlia con il principe Guglielmo, i suoi avi avrebbero potuto benissimo fa una supplica per uno stemma già due secoli fa. Ricordiamo ai nostri soci che, sul piano legale in Inghilterra, la concessione di uno stemma non equivale ad una creazione di nobiltà, ma da soltanto una conferma di uno status già esistente, che è nella maggior parte dei casi quello di “gentleman”. La principessa come tale ha avuto concesso anche un proprio stemma relativo alla sua condizione di consorte del principe William che tiene anche conto dello stemma della famiglia di provenienza. 8 Andrew Martin Garvey I Cavalleggeri di Foggia Uno dei primi reggimenti di cavalleria del Regio Esercito Italiano che assunse il nome di una località del Regno delle Due Sicilie dopo la costituzione del Regno d’Italia fu quello dei Lancieri di Foggia., nati come tali ma nel 1871 privati della lancia e passati nella cavalleria leggera e quindi nel 1897 divenuti Cavalleggeri Il 23 ottobre 1863 venne ordinata la formazione del deposito di questo futuro reggimento composto da uno Stato Maggiore e da uno squadrone, uniforme e corredo sarebbero stati quelli degli altri reggimenti dei lancieri, sennonché i paramani e la goletta sarebbero stati in velluto nero con filettature scarlatte ed il keppy a cordoni di color scarlatto. Il Deposito doveva costituirsi a Vercelli il successivo 16 novembre con personale di truppa e sottufficiali da trarsi dai Lancieri di Novara, di Milano, di Firenze, di Vittorio Emanuele e dai Cavalleggeri di Alessandria, in totale si trattava di 2 furieri di amministrazione, 1 furiere, 14 sergenti, 23 caporali di varie specializzazioni, 2 trombettieri, 1 maniscalco ed un allievo maniscalco, 2 sellai e 50 soldati. Assumeva il comando del Deposito il maggiore Pericle Massara di Previde il quale aveva alle spalle un buon curriculum di guerriero: il 25 marzo 1848 si era arruolato come granatiere volontario; 23 maggio di quello stesso anno era nominato sottotenente nel 17° reggimento fanteria col quale aveva partecipato alla prima ed alla seconda fase della I guerra d’Indipendenza, ricevendo per il suo comportamento a Mortara ed a Novara il 21 e 23 marzo 1849, una menzione onorevole; il 12 marzo 1850 veniva nominato sottotenente nel rgt. Lancieri di Novara, proseguiva poi la carriera nei cavalleggeri di Saluzzo, nello squadrone Guide, col quale militò durante la II guerra d’Indipendenza, ove venne decorato di una medaglia d’argento per essersi distinto a San Martino; nell’ottobre del 1859 venne promosso maggiore. Nel gennaio del 1864 veniva ordinata la costituzione a partire dal 16 febbraio successivo la formazione del reggimento che sarebbe stato formato dal: 2° squadrone dei Lancieri di Novara che avrebbe assunto il numero 1 nel nuovo reggimento; 3° squadrone dei Lancieri di Milano che avrebbe assunto il numero 2 nel nuovo reggimento; 5° squadrone dei Lancieri di Firenze che avrebbe assunto il numero 3 nel nuovo reggimento 6° squadrone dei Lancieri Vittorio Emanuele che avrebbe assunto il numero 4 nel nuovo reggimento.; il 1° squadrone dei Cavalleggeri di Alessandria che avrebbe assunto il numero 5 nel nuovo reggimento. Stemma del reggimento dei Cavalleggeri di Foggia Il comando veniva affidato al colonnello conte Vittorio Barattieri fino allora comandante in 2° della Scuola Normale di cavalleria, che ebbe però appena il tempo di guardarsi attorno perché il successivo 6 aprile veniva trasferito al comando di Genova cavalleria, lo sostituiva il tenente colonnello Carlo Maria Felice Canera di Salasco che rimase comandante del reggimento per qualche giorno più di 9 anni; già paggio d’ onore di S.M. ed allievo dell’Accademia Militare era stato da sottotenente a capitano nel lancieri di Novara, alla loro costituzione era transitato nei lancieri di Montebello, poi come molti altri ufficiali dell’esercito sardo, a seguito della trasformazione dell’Armata Sarda in Regio Esercito Italiano dalla promozione a capitano nel maggio 1859 a quella di tenente colonnello avvenuta il 31 dicembre del 1861 passarono meno di tre anni. Aveva alle spalle la partecipazione alla I e II guerra d’Indipendenza ed alla campagna di Crimea durante la quale era stato decorato della Legion d’Onore dai Francesi e della croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. Al comando del reggimento per l’esempio dato al suo reparto “manovrandolo calmo ed ordinato al fuoco e per l’impulso e direzione data alla ricognizione e fatto di Gazzoldo del 30 giugno 1866” ricevette la medaglia d’argento a V.M. Arma Canera di Salasco Il 14 luglio 1864 gli squadroni attivi del reggimento partivano il 31 luglio per il campo d’istruzione di S. Maurizio e il 1 settembre il Deposito lasciava la città di Vercelli e si trasferiva a Torino. Terminato il campo d’istruzione gli squadroni attivi lasciarono il campo la notte del 22 settembre per recarsi a Torino in servizio di ordine pubblico a causa dei disordini ivi scoppiati in conseguenza della convenzione del settembre 1864. Il reggimento rimase quindi di stanza in città con due squadroni distaccati prima alla Venaria Reale poi a Stupinigi. Il 10 agosto 1865, quattro squadroni partirono per il campo di S. Maurizio lasciando in sede il 5° ed il 6° che nel successivo settembre si spostavano a Savigliano nuova sede assegnata al reggimento ove il 3 ottobre vennero raggiunti dagli altri. Il 1 febbraio 1866 venne sciolto il Deposito ed il suo personale trasferito agli squadroni attivi. Tipico delle misure ordinative del nostro esercito il successivo 28 aprile il Deposito venne ricostituito con un comando, pomposamente denominato Stato Maggiore, e col 6° squadrone, il quale versò agli altri cinque il personale ed i cavalli capaci di entrare in campagna, successivamente il 16 maggio venne ricostituito lo squadrone deposito. Il 2 maggio i cinque squadroni operativi partirono da Savigliano diretti a Piacenza dove arrivarono il 12 e furono 9 accantonati il 14 a Caorso e Polignano, come parte della cavalleria del III C.A., comandata dal Maggior Generale Eugenio Beraudo di Pralormo. Con questo C.A. il reggimento arrivò sul Mincio il 20 giugno, fu tra i primi a passare il ponte di Goito il 23 e a riconoscere la pianura di Villafranca in tale occasione il 5° squadrone mise in fuga una retroguardia nemica e fece alcuni prigionieri. Il 24 giugno prese parte alla battaglia di Custoza, senza perdite rilevanti, e il 30 poiché la cavalleria austriaca aveva passato il Mincio il rgt partì da Acquanegra per respingerla, il 4° squadrone comandato dal capitano cav. Mussi, che si trovava in avanguardia si scontrò il nemico presso Gazzoldo, lo caricò audacemente e brillantemente, lo pose in fuga infliggendogli rilevanti perdite in uomini e cavalli. Per questo combattimento il capitano Mussi venne fregiato della croce di Cav. dell’OMS, mentre vennero decorati con la medaglia d’argento al Valor Militare 3 ufficiali, 3 sottufficiali e 3 lancieri; e ottennero la menzione onorevole 2 ufficiali e 12 lancieri. Il 13 luglio il reggimento passò il Po a Casalmaggiore ed il C.A. entrò nel Veneto da Ponte Lagoscuro il 19 ed entrò a far parte della Brigata di cavalleria del IV C.A. con cui avanzò fino ad Udine.. Durante l’armistizio firmato il 15 agosto il reggimento fu accantonato a Dolo e San Brusan dove rimase sino al 5 settembre da dove venne diretto a La Spezia dopo essere stato raggiunto dal suo 6° squadrone e il 20 settembre si imbarcò per Palermo ove era scoppiata una grave rivolta. Il 10 ottobre sbarcò a Palermo il 1°, 2°, 3° e 6° squadrone e l’11 a Messina il 4° e 5° a Messina Questi ultimi dopo aver tenuto stanza a Messina, Catania e Agrigento si riunirono a reggimento a Palermo nel maggio del 1867 dove si alternarono con gli altri distaccamenti nell’interno dell’isola e la guarnigione di Palermo. Ufficiale dei Cavalleggeri di Foggia 10 Tracciati sinteticamente primi tre anni di vita di questo reggimento, scomparso dai ruoli dell’esercito sin dal 1920, si vogliono qui ricordare alcuni degli ufficiali che in quel primo periodo, denso peraltro di eventi servirono portando le fiamme di questa unità Luigi Carlo Alberto Maria Mussi, venne trasferito col grado di capitano dai lancieri di Montebello in quelli di Foggia il 29 ottobre 1863, prima aveva servito nei lancieri di Aosta. Partecipò alla II e III guerra d’Indipendenza e alla campagna per la repressione del brigantaggio, formula elegante con la quale si nasconde la crudele guerra civile condotta con assoluta ferocia da ambo le parti, fra il 1862 e il 1870. Nella II guerra d’Indipendenza era nello squadrone di Aosta che si distinse a Montebello, motivo per il quale fu trasferito in questo reggimento quando si costituì. Il 15 gennaio del 1863 venne decorato della medaglia d’argento al V.M. per zelo e valore dimostrato nella repressione del Brigantaggio nelle province meridionali; il 30 giugno 1866 comandava lo squadrone che operò a Gazzoldo ove venne ferito al gomito destro. Per il suo comportamento in quel fatto d’armi venne decorato della croce di cavaliere dell’Ordina Militare di Savoia per aver audacemente attaccato e sconfitta col proprio squadrone una colonna nemica molto superiore di forze, cagionandole perdite considerevoli in uomini e cavalli. Ferito egli stesso nel primo scontro al gomito destro, continuò a combattere ed inseguire il nemico, né pensò di farsi medicare se non dopo essere rientrato in Gazzoldo. Luigi Carrano di Cesare e di Maria Giuseppa De Iorio era nato il 4 febbraio. 1812 a Napoli, il 16 ottobre del 1832 si era arruolato come volontario. nel 2° reggimento lancieri delle Due Sicilie come aspirante Guardia del Corpo nelle quali venne ammesso prima in soprannumero poi quale guardia a cavallo nel 1836. Il 25 maggio 1838 era stato promosso alfiere della gendarmeria reale a cavallo da dove era passato al 2° reggimento Dragoni, il 9 settembre del 1844, commissario del Re presso il consiglio di guerra del rgt.; nel 1846 era stato promosso tenente e nel 1853, capitano nel 1° rgt lancieri da dove nel 10 dicembre del 1859 era passato nel 2° rgt lancieri e il 21 febbraio 1860 era tornato nel 1° rgt lancieri; il 20 marzo del. 1860 era stato nominato aiutante maggiore del 1° rgt Dragoni, il 1 agosto del 1860 era stato promosso maggiore nel rgt cacciatori a cavallo. Rimase quindi sin quasi all’ultimo con il suo antico sovrano poi probabilmente anche grazie all’intervento del fratello che faceva parte dello Stato Maggiore garibaldino il 7 febbraio 1861 divenne maggiore nel rgt dei cavalleggeri di Saluzzo e qui siamo ancora prima della proclamazione del Regno d’Italia; per un breve periodo era stato assegnato ad un deposito di stalloni e poi nei lancieri di Novara, il 4 febbraio 1864, era stato assegnato quale tenente colonnello in Foggia, in cui rimase relativamente poco perché nell’aprile del 1866 venne trasferito nei cavalleggeri di Alessandria. . L’ 11 agosto 1848 venne decorato della croce di cavaliere di grazia dell’ordine di S. Giorgio della Riunione e 14 aprile 1850 di quella dell’Ordine di S. Silvestro. Partecipò alla campagna del 1849 per la riconquista di Roma Si distinse nei fatti d’arma contro i rivoluzionari di Catania il 31 maggio 1860, venne per ciò decorato della croce di cavaliere di diritto dell’Ordine Militare di S. Giorgio della Riunione Decorato della croce di cavaliere di 2^ classe dell’ Ordine di Francesco I. Il 4 agosto del 1861, per meriti che non si è riusciti a trovare ben descritti, ma che è facile immaginare, venne decorato della croce di cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e nelle note relative alle campagne del suo ruolo matricolare si trova scritto: Ha fatto la campagna del 1860-61 nel napoletano. Per non essere cattivi si può dire non il tradimento ma il cambiare idea spesso conviene se si passa col vincitore. Cesare Carrano, fratello del precedente in servizio nell’ esercito delle Due Sicilie dal 1857 quando era entrato come soldato volontario nel 1° reggimento lancieri, anch’egli come Luigi era stato alfiere onorario delle Guardie del Corpo ed aveva quindi servito nel reggimento Cacciatori a cavallo, reparto al quale era stato assegnato il 14 luglio 1860. Il 7 febbraio 1861 lo si trova sottotenente nel reggimento cavalleggeri di Alessandria, l’anno dopo promosso tenente passò nei lancieri di Novara e il 16 febbraio 1864 venne assegnato ai lancieri di Foggia ove rimase sino all’aprile del 1866 quando venne trasferito nei cavalleggeri di Lucca. Lorenzo Gottero, arruolatosi come soldato semplice a 12 anni nel 1824 divenne maniscalco nel 1829, promosso ufficiale nel 1848 venne assegnato in Foggia col grado di maggiore nel febbraio 1864. Aveva appuntate sul petto due medaglie d’argento, una presa a Valeggio il 25 luglio 1848 e l’altra a Novara il 23 marzo del 1849 servendo nei lancieri di Aosta, e la croce di cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro per essersi distinto alla ricognizione sul Garigliano il 29 ottobre 1860 Giovanni Maurizio Luigi Demichelis allievo dell’Accademia Militare nel 1851 era stato assegnato nel reggimento dei cavalleggeri di Monferrato, aveva partecipato alla spedizione in Crimea e al rientro dall’Oriente era rientrato nel reggimento col quale aveva partecipato alla II guerra d’Indipendenza, nel marzo del 1860 era stato promosso capitano e trasferito nei lancieri di Novara da dove il 16 febbraio del 1864 era passato nei Lancieri di Foggia. Per la campagna di Crimea aveva ottenuto la medaglia inglese, mentre nella II guerra d’Indipendenza aveva ricevuto una menzione onorevole “per l’abilità con cui contribuì col suo distaccamento al buon esito della ricognizione tra Rivoltella e Pozzolengo il 22 giugno 1859 e pel lodevolissimo modo con cui condusse le sua sezione di scorta a due pezzi d’artiglieria nel fatto d’armi di S. Martino il 24 giugno 1859. Per la valorosa ed esemplare condotta alla battaglia di Castelfidardo il 18 settembre 1860 venne decorato della croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia Campagna Francesco Antonio Cavalli, già ufficiale che aveva prestato servizio in Genova, Saluzzo ed Alessandria venne assegnato in Foggia col grado di capitano il 16 febbraio 1864. “Per il modo distinto in cui comandò il proprio squadrone in tutto il tempo del combattimento di Custoza” il 24 giugno 1866 ottenne la menzione onorevole. Giovanni Luigi Maria Govone, nominato sottotenente nei cavalleggeri di Monferrato nel 1855 prestò servizio nei cavalleggeri di Saluzzo ed in quelli di Lodi, nel 1862 promosso capitano venne inviato nel reggimento dei lancieri di Vittorio Emanuele in via di costituzione e poi il 16 febbraio 1864 venne trasferito nei Lancieri di Foggia, ove per l’esperienza pregressa venne nominato aiutante maggiore in 1^. Sul suo petto era già appuntata una medaglia d’argento per essersi particolarmente distinto nella battaglia di San Martino. Carlo Maria Valperga di Masino, prima soldato volontario in Nizza cavalleria divenne ufficiale nel 1859 a seguito di uno dei corsi supplementari dell’Accademia Militare indetti per far fronte alle esigenze della II guerra d’Indipendenza (corsi della durata di una quindicina di giorni), sottotenente nell’aprile del 1859 dopo aver prestato servizio nelle Guide, aver fatto l’aiutante di campo del generale Lamarmora nel febbraio del 1864 era stato assegnato ai lancieri di Foggia ove rimase sino a quando a domanda, nel 1867, si dimise. Per il suo comportamento a Madonna della Scoperta il 24 giugno 1859 era stato decorato della medaglia d’argento al Valor Militare. Paolo Balbo, figlio del noto Cesare, dopo aver fatto il soldato volontario nei cavalleggeri di Alessandria nel 1855 ed aver partecipato con essi alla campagna di Crimea si era congedato, ma nel marzo del 1859 dopo aver frequentato uno dei corsi suppletivi per ufficiale era stato promosso sottotenente in Nizza cavalleria, aveva poi servito da tenente nei cavalleggeri di Alessandria e nel febbraio del 1864 era stato assegnato col grado di tenente nei lancieri di Foggia, ove rimase circa un anno perché promosso capitano venne trasferito Vittorio de Gregorio dei principi di S. Elia, il 15 gennaio 1860 era stato nominato alfiere onorario delle Guardie del Corpo a cavallo delle Due Sicilie, allo sbarco di Garibaldi in Sicilia aveva abbandonato l’esercito borbonico, nel 1861 era stato comandato prima presso la scuola militare di cavalleria a Pinerolo e successivamente assegnato col grado di sottotenente nei lancieri di Milano da dove il 16 febbraio 1864 era stato trasferito nei lancieri di Foggia con i quali rimase sino al 1868 quando venne scelto dal generale Pianell come aiutante di campo. Rodolfo Acquaviva d’Aragona, aveva anch’egli prestato servizio fra il 1857 e il luglio del 1860 nelle Guardie del Corpo del Regno delle Due Sicilie, poi dispensato dal servizio nell’agosto del 1860 era stato ammesso nell’Armata Sarda col grado di sottotenente ed aveva servito in Nizza cavalleria e nei lancieri di Novara. Venne trasferito nei lancieri di Foggia poco prima dell’inizio della III guerra d’Indipendenza e alla fine di essa si dimise. Il reggimento come sopra si è accennato venne sciolto nel 1920 dopo la sua partecipazione alla I guerra mondiale dove fra l’altro si distinse nell’ottobre del 1917 nella protezione del ripiegamento dell’XI Corpo d’Armata e poi ancora nell’ ottobre novembre del 1918, quando con uno dei suoi squadroni guadato alle 11,30 del 4 novembre il Tagliamento alle 13 alle porte di Udine caricava una colonna austriaca e proseguiva sino a Cussignacco, mentre gli altri squadroni erano impegnati a favore di diverse unità di fanteria sul fronte del Corpo d’Armata. Alberico Lo Faso di Serradifalco 11 Attività della Società Sabato 19 maggio u.s. si è svolta l’Assemblea Generale della S.I.S.A. presso l’abitazione del Presidente. Erano presenti 25 Soci ed altri 7 avevano inviato le rispettive deleghe. Il Presidente ha sinteticamente illustrato l’attività della Società, congratulandosi per la riuscita del 29° Convivio del 15 ottobre 2011 e per l’ottima collaborazione avuta con l’Associazione VIVANT, in occasione del convegno sull’Araldica del Pennello del 26 novembre. Ha nuovamente evidenziato come l’interesse per il nostro Sodalizio e l’attività svolta dallo stesso, siano comprovate dal numero di visitatori del sito socistara.it che ammonta, dal 2005 ad oggi, ad oltre 33.500 contatti. Il Presidente, come di consueto, ha particolarmente richiesto ai Soci presenti di adoperarsi per una maggiore produzione di contributi in articoli e studi da destinare sia al nostro notiziario Sul Tutto sia al nostro sito internet. Ha poi discusso con l’Assemblea, su indicazione del Consocio Scordo, sullo stato dei lavori della Commissione per la pubblicazione degli studi S.I.S.A. che ha a sua volta sinteticamente sottoposto un breve elenco di lavori pubblicabili nonché altri sui quali si è riservata un ulteriore lasso di tempo, per decidere ed esporre al voto dei Consoci. L’Assemblea ha poi richiesto al Consiglio Direttivo, nelle persone del Segretario e del Tesoriere, di procedere alla verifica dei Soci morosi delle quote associative, sia in corso sia arretrate, sollecitando l’invio dei corrispettivi avvisi, entro l’autunno, tenuto inoltre conto del costo della spedizione degli atti e del notiziario ha invitato Presidente e Segretario a sospendere l’invio della produzione della Società ai soci che da qualche tempo non abbiano più provveduto a versare le quote associative, sostanzialmente unica fonte di sostentamento per il sodalizio Si è proceduto quindi alla definizione del luogo e della data del prossimo 30° Convivio scientifico della Società: sabato 6 ottobre 2012 a Cuneo, presso la prestigiosa residenza privata del Consocio Piero Gondolo della Riva, gentilmente concessa per l’occasione. Ai primi di settembre sarà inviata ai soci la richiesta di adesione e saranno fornite tutte le informazioni utili. Si è infine passati all’approvazione del Bilancio Consuntivo 2011 e Preventivo 2012. Il Presidente, al termine dell’incontro, ha voluto manifestare a tutti i convenuti il più sentito ringraziamento per il concorso dato da molti al raggiungimento degli scopi statutari della Società Italiana di Studi Araldici, auspicando una sempre maggiore e continua collaborazione affinché ciò possa continuare. MDB Un inedito soffitto ligneo biellese ritrovato in Canavese È stato di recente inserito nella rubrica studi del nostro sito un interessantissimo lavoro di Federico Bona relativo ad un soffitto ligneo ora nella villa che fu di Piero Giacosa a Colloretto Gacosa comprendente 60 tavolette in 18 delle quali sono dipinti gli stemmi di famiglie piemontesi. L’autore nel suo lavoro scrive: «Il soffitto, di origine chiaramente estranea all’ambiente in cui è collocato, è composto da elementi di epoche diverse. Alcune parti sono state oggetto di un recente restauro, altre sono copie ottocentesche di modelli antichi. Le tavolette dipinte sono invece databili all’ultimo decennio del XV secolo o al più tardi ai primissimi anni del XVI secolo. Si può infatti affermare con certezza che il soffitto proviene dal Biellese e che il committente fu quasi sicuramente il cele12 bre Sebastiano Ferrero (1438-1519), tesoriere generale delle Finanze del ducato di Savoia, nonché tesoriere generale e amministratore delle Finanze ordinarie e straordinarie nel ducato di Milano. Sebastiano fu signore di Gaglianico dal 1476 e di Candelo dal 1489: tra le tante, vengono ricordate solo queste due investiture, perché è molto probabile che il soffitto provenga da una di queste località biellesi.». Per suscitare la curiosità di chi non lo avesse ancora visto e soprattutto di coloro che sprovvisti di internet che ne volessero copia si riporta di seguito alcune delle figure rappresentate. Stemma del Duca di Savoia Stemma Fieschi Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto magnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico.
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